Nope: il potere e il pericolo dello sguardo
"Nahum 3:6: I will cast abominable filth upon you, make you vile and make you a spectacle"
Mai sottovalutare una citazione se è la prima cosa che un regista decide di mostrare all'inizio di un film, soprattutto se quel regista è Jordan Peele, che non lascia mai niente al caso.
Il versetto della Bibbia, tratto dal profeta minore Naum, è emblematico e istituisce il senso e la morale di Nope, da ricercare proprio nello spettacolo, nel discorso e nell'analisi che viene fatta sul sistema produttivo hollywoodiano, sullo sfruttamento delle immagini e dei traumi, della manovalanza degli animali e soprattutto nell'atto stesso del guardare.
Se pensate di assistere a un bis di Get Out, non troverete nessuna metafora sociale così ardita, e nemmeno troverete gli stessi brividi che è in grado di suscitare Us. Jordan Peele lo dichiara subito: Nope non è ciò che pensiamo. Allora cos'è?
Nope nella filmografia di Peele
Innanzitutto, Nope è un'evoluzione del cinema di Peele, che trova la via di fuga da uno stile in cui rischiava di fossilizzarsi e lo fa sfruttando altri due generi oltre l'horror: la fantascienza e il western.
Tuttavia, gli elementi di continuità con il lavoro precedente non mancano. Innanzitutto, è sempre presente un senso dell'umorismo episodico, pungente e quasi fuori contesto, irresistibile proprio per questo. Lo si nota già dal titolo, un forte no, una negazione colloquiale, ripetuta spesso dai personaggi nei momenti di maggiore paura, come a voler ricacciare indietro ciò che sta accadendo intorno a loro, ma anche Not Of Planet Earth.
Ciò che muta è la scrittura. Meno allegorica ma anche meno fluida, spezzata in veri e propri capitoli, introdotti da titoli su sfondo nero: i nomi degli animali con cui entreremo in contatto durante il film. La scrittura sembra caotica, nella misura in cui, per esempio, introduce diversi spunti di riflessione senza mai scavarvi troppo in profondità. Il caos però non è un concetto che si addice a Peele e infatti, anche la sottotrama in apparenza più slegata, quella di Gordy, ha un suo senso ai fini del film.
Trama e temi (ALLERTA SPOILER)
OJ (Daniel Kaluuya) ed Emerald (Keke Palmer) Haywood ereditano l'attività di famiglia dopo l'improvvisa e inspiegabile morte del padre, interpretato da Keith David (il cui piccolo ruolo è un omaggio all'horror fantascientifico La cosa). Sono allevatori di cavalli per set cinematografici, diretti discendenti del fantino nero che per primo apparì in un'immagine in movimento.
"Since the moment pictures could move, we had skin in the game"
Con questa battuta Emerald rende esplicito quello che è sempre stato chiaro nel cinema di Peele: l'importanza del black cinema nella storia e nella cultura statunitense nonostante la rimozione collettiva spesso operata da Hollywood. Contemporaneamente è la frase che introduce il tema meta-cinematografico, il cinema che parla di sé stesso e che lo fa a partire dalla base della piramide, dai lavoratori anonimi e mai riconosciuti.
Loro sono gli sfruttati, "uccisi" dal dio denaro, come simbolicamente viene ucciso Otis Senior, il padre dei protagonisti, trafitto da un quarto di dollaro caduto misteriosamente dal cielo a velocità letale all'inizio del film. Urla lontane, un suono alieno che sguscia via attraversando lo schermo, decine di oggetti familiari che, precipitando, si trasformano in lame improvvise. Peele introduce così l'elemento sovrannaturale, rifacendosi all'ormai classico stratagemma de Lo Squalo: ciò che non si vede, spaventa di più di quello che si vede.
E proprio lo sguardo è il tema sotteso all'intero film, da un lato connesso allo spettacolo a cui fa riferimento anche la citazione biblica iniziale, dall'altro connesso in senso più ampio all'esplorazione sensoriale dell'horror: dopo l'udito in Get Out e il tatto, la vibrazione vocale in Us è ora il turno della vista.
Guardare e addomesticare
L'atto del guardare in Nope è connesso al controllo, al dominio e alla capacità di domare l'indomabile. Gli Haywood domano cavalli per il cinema, ma li conoscono, li amano, li rispettano, e, nel caso di OJ, lui vive quasi in simbiosi con essi, più a suo agio con gli animali che con le persone. Hollywood non sa farlo, è solo una macchina che sfrutta e abusa la natura e i suoi prodotti, al punto da generare conseguenze devastanti, come nel caso di Gordy, lo scimpanzé con cui si apre il film. Un animale in trappola, spremuto come un oggetto scenografico su un set televisivo, che, all'improvviso, si scatena con violenza contro i presenti.
È una scena cruenta e spaventosa, in cui tutta la potenza del selvaggio si scaglia contro l'umanità. Gordy si scaraventa contro i suoi "colleghi" attori, ricoperto del loro sangue. Li uccide, li deforma, li picchia brutalmente, eppure noi non lo vediamo. A coprire l'orrore c'è sempre qualcosa che si frappone, un divano, una porta… La vista preclusa, insieme ai suoni dettagliati dei colpi brutali, è ciò che fa di questo momento uno dei più terrificanti del film. Ma a cosa serve? Gordy non è un alieno né un personaggio principale.
Gordy fa parte del passato, di una sitcom in cui Jupe (Steven Yeun) recitava da bambino. Jupe è il residente più vicino al ranch degli Haywood, proprietario di un parco giochi a tema western, in cui continua a recitare una parte, tenendo nascosto il suo trauma più grande, di cui non riesce a parlare se non attraverso uno sketch parodico di SNL, e a cui ha eretto un vero e proprio mausoleo segreto.
Jupe, infatti, ha qualcosa
di irrisolto, un ultimo gesto che gli è stato negato. Credeva di
essere l'unico a poter controllare Gordy, l'unico di cui l'animale si fidasse e
a cui, anche dopo il massacro, stava per porgere la zampa insanguinata
come segno di alleanza e riconoscimento. Lo scimpanzé viene ucciso prima che
questo gesto si compia, lasciando in Jupe il desiderio irrealizzato di
controllare l'incontrollabile.
È proprio lui fra i primi ad accorgersi che qualcosa si nasconde nei cieli di Agua Dulce, a pochi chilometri da Los Angeles, ma non è colui che lo saprà addomesticare, divorato dalla sua stessa smania di onnipotenza.
In una nuvola che rimane sempre fissa all'orizzonte, infatti, si nasconde un predatore alieno che ha fatto dei ranch di Agua Dulce il suo territorio. È un enorme disco, vivo e mutevole, che ha bisogno di nutrirsi, attirando a sé tutto ciò che trova sulla terra.
Nessuno tranne OJ capisce che si tratta di un singolo ed enorme esemplare di "animale extraterrestre", un predatore solitario, non un disco volante con cui "è necessario scendere a compromessi". OJ, da silenzioso osservatore del comportamento dei suoi animali, capisce anche come affrontarlo, come sfruttare le sue caratteristiche a suo favore e, soprattutto, come sconfiggerlo.
The impossible shot
Il mostro risparmia infatti chi non lo guarda, chi resiste alla curiosità di alzare gli occhi al cielo, elemento di trama che da lontano ricorda un po' Medusa, un po' il mito di Orfeo ed Euridice. Il punto, di nuovo, è lo sguardo, il controllo attraverso l'atto del vedere. Peele, con Nope, afferma che quel controllo è effimero, oltre che pericoloso, è il potere di rendere tutto spettacolo senza comprendere davvero i meccanismi e le relazioni alla base della natura.
"The villain is this otherworldly threat. And it is also something that everyone has in common—everyone's relationship to the spectacle." - J. Peele
Il film riassume questa volontà di potenza con un'espressione molto efficace, l'impossible shot, la ripresa impossibile, infattibile, leggendaria. E non a caso la brama dell'impossible shot divora un personaggio secondario, Antlers Holst (Micheal Wincott), Holst è il direttore della fotografia contattato da Emerald per riuscire a ottenere su pellicola la prova dell'esistenza degli alieni. Solo l'analogico, infatti, può cogliere la figura che è in grado di mettere fuori uso ogni altro dispositivo. Così OJ, Emerald, Holst ed Angel (un tecnico informatico che si auto-coinvolge entusiasticamente) preparano una trappola.
Tutto va (quasi) per il verso giusto fino a quando la hybris prende il sopravvento, ed è ovviamente il superbo atto di sfida dell'uomo bianco, bersaglio preferito delle frecciatine di Peele, a vanificare tutti gli sforzi. Holst, infatti, non si accontenta di una buona prova, vuole la ripresa perfetta, con la luce migliore, e spinto quasi da una forza invisibile, finisce tra le fauci di Jean Jacket, nome che OJ dà al mostro alieno.
Jean Jacket
Jean Jacket è anche il nome
del cavallo che Emerald desiderava da bambina, poi
addestrato dal padre e dal fratello per il set di The Scorpion King e
perso per sempre. Parallelamente alla storia di Gordy e Jupe, Jean Jacket è
quella componente selvaggia che Emerald non è mai riuscita ad addomesticare. OJ
sembra quasi farlo di proposito, sceglie un nome che ha un senso
profondo per entrambi, essendo anche il primo set a cui il padre
l'aveva portato (si noti la felpa arancione della scena finale), e sigla così
il momento in cui lui e la sorella, così distanti e così diversi, iniziano a
trovare terreno comune.
La scelta di questo nome contribuisce quindi a creare il crescente senso di epicità dell'ultimo atto, inoltre, permette di far passare dalle mani di OJ a quelle di Emerald, lo scettro di eroina del film. Mentre OJ è disposto fin da subito a sacrificarsi, è proprio Emerald ad "addomesticare" Jean Jacket e alla fine a salvare tutti.
Il lavoro di Keke Palmer e Daniel Kaluuya, in questo senso, è impressionante. Per oltre metà del film interpretano due personalità opposte, giocate proprio sul contrasto. Tanto è laconico, calmo e silenzioso OJ, tanto è esuberante, rumorosa e vitale Emerald. Con l'evoluzione della trama i due si trasformano, integrandosi sempre di più, man mano si riscoprono come persone e come fratelli e lottano insieme per sopravvivere.
E se la coppia Peele-Kaluuya era già una garanzia, Kaluuya infatti dà ancora una volta prova della sua mostruosa capacità attoriale riuscendo a recitare di soli sguardi, il modo in cui il regista ha diretto l'esplosiva Palmer fino a farne la punta di diamante del film è ancora più interessante.
In breve, Nope è un grande esempio di horror lovecraftiano per definizione, il cosmic horror incentrato sulla paura dell'ignoto. Non ha un vero cattivo, se non gli "spettatori" stessi, che, alla costante ricerca dell'immagine perfetta, perdono di vista il potere e il pericolo che lo spettacolo esercita sulla mente. È una riflessione sulla cultura delle immagini, sul cinema e sullo sfruttamento capitalistico e visuale del trauma. Più di ogni altra cosa, però, è in sé un magnifico spectacle che ribalta l'accezione negativa del biblico inizio e che ci lascia sbalorditi e increduli davanti al terzo capolavoro del regista Jordan Peele.
di Rebecca Carminati
Voto: ★★★★☆
Nope si merita tutto il successo che ha ricevuto, se non di più. Quelli che l'hanno trovato troppo criptico o troppo distante dai precedenti due lavori di Peele, non l'hanno guardato con attenzione, perché a mio parare questa è l'opera più sincera del regista e si contende con Get Out il primato della sua filmografia. Non vedo l'ora di scoprire quale sarà la prossima perla nascosta che ci regalerà questo mostruosamente brillante regista!