La zona d'interesse

01.04.2024

1940, Aushwitz


LA FAMIGLIA

Il film si apre con una scena idilliaca che ci mostra una perfetta famiglia felice stesa sulle rive di un fiumiciattolo intenta a parlare, prendere il sole e giocare. Una madre, un padre e cinque figli, biondi e sognanti che riflettono la luce del sole. Poco più tardi veniamo a conoscenza del lavoro del padre Rudolf Hoss, comandante del campo di concentramento (e di sterminio) di Aushwitz,                                                                                                      che cresce la sua famiglia all'ombra del                                                                                                                campo.



LA CASA E IL GIARDINO

La famiglia vive in una casa moderna in perfetto stile tedesco, ampia e confortevole. Sono serviti e assistiti da "giovani ragazze del posto" (un gentile sinonimo per ebree) e nulla sembra mancare.

La parte più importante della casa è sicuramente il giardino, che si estende per varie decine di metri quadrati, splendido nei colori dei suoi mille fiori e nel verde acceso del prato che fiorisce grazie al concime speciale fornito dal campo. Il giardino viene mostrato più volte durante il film, seguendo lentamente i movimenti dei personaggi all'interno di esso, quasi in modo ossessivo, come è ossessivo il comandante Hoss nella sua routine. Il giardino è difatti il loro Eden, ed è il dominio della moglie del comandante, Hedwig. È stata lei a dirigerne la creazione, a scegliere pezzo per pezzo la posizione di ogni singolo componente, è lei che se ne prende cura, non da sola ovviamente, ma affiancata da un team di giardinieri, che non hanno nessun merito se non l'onore di poter lavorare nel SUO giardino.

La casa è anche il luogo del paradosso per eccellenza, dove i personaggi "innocentemente" annullano ogni presa di coscienza: si lamentano del cibo, mentre a dieci metri da loro gli ebrei muoiono di fame, si lamentano del freddo o dicono di adorare la neve, mentre dall'altra parte lavorano all'esterno con addosso degli stracci in pieno inverno. Sono sottili giochi ironici che Jonathan Glazer attua attraverso dialoghi apparentemente insignificanti, che stimolano lo spettatore, lo indignano, ma di fatto ci mostrano la normalità di una famiglia che vive in campagna giorno per giorno. 



IL MURO

Il giardino dista forse 5 metri dal muro, l'alto muro del campo, il muro che separa i tedeschi dagli ebrei, che separa i buoni dai cattivi, che separa loro dalla colpa. Durante il film nessuno guarda mai oltre il muro, anzi nessuno guarda neanche il muro, non sono interessati, non sono cose che li riguardano. Per la famiglia oltre il muro c'è solo il lavoro di papà, e tutta la loro vita si concentra al di fuori di esso, nonostante debbano tutto quello che hanno a ciò che c'è al di là di quel muro, quel muro che non gli interessa guardare.

Lo sguardo assume tutto il valore, o più che lo sguardo, l'assenza di esso. Nessuno vuole guardare, nessuno prova a guardare, a nessuno importa di guardare, allora cosa è che impedisce lo sguardo? 


 

È il senso di colpa? Il non voler essere associati con una simile cosa? O è il banale non-interesse? La banalità del male dice Hanna Arendt, il semplice fatto che loro sono una normale famiglia che vive la propria vita al di là dei "vicini di casa"?

Il muro non è solo quello del campo, tutto il film è percorso da muri: il muro che divide le stanze della casa, il muro che divide la camera da letto coniugale, il muro del museo, il muro dello schermo, della macchina da presa, che ci tiene sempre al di là, sempre a debita distanza, perché in realtà lo sappiamo tutti, nessuno vuole davvero vedere cosa c'è oltre il muro, perché il non-vedere è quello che ci autorizza a fingere di non-sapere, ci autorizza a una sospensione morale.



IL POTERE: IL RE E LA REGINA

Lo sguardo è da sempre legato al potere, "il potere può essere potere solo quando è cieco" dice mio fratello, e tutto il film si fonda su delle dinamiche di potere, alcune esplicite, altre sottese.

Hoss è il comandante del campo che sta per essere sostituito e assegnato a un nuovo ruolo, quando viene informato del suo trasferimento è irrequieto e imbarazzato, più che con i suoi colleghi SS, nei confronti della moglie. Hedwig ha fatto della loro casa il suo regno, afferma ridendo che l'hanno soprannominata "la regina di Aushwitz", comanda in modo fermo e deciso, è una sovrana gentile e magnanima almeno fin quando non si arrabbia e perde leggermente il controllo minacciando di seppellire le ceneri delle sue serve nel campo per esempio.

Se Hedwig è la regina, Hoss dovrebbe essere il re, ma sembra essere assoggettato alla moglie come gli altri ebrei al suo servizio, non perché lei lo comandi a bacchetta, ma perché è vittima di una soggiogazione psicologica ed emotiva: Hedwig è convinta che loro abbiano raggiunto la vita perfetta, il modello tanto decantato dal Fuhrer, quello che sognavano da quando avevano diciassette anni, o forse quello che lei sognava?

Hoss parte e lei non lo segue. Rimane a casa, a dirigere il forte, e a crescere i loro figli all'aria aperta.

Perché è così importante per Hedwig restare nella loro casa? Una brava donna tedesca avrebbe seguito il marito in qualsiasi compito affidatogli dal Reich, ma lei si impunta, neanche per un secondo prende in considerazione l'idea di lasciare il paradiso, ed ecco che ritorniamo alla retorica del potere. Mentre Hoss costruiva il suo nome di rango in rango raggiungendo obiettivi sempre più alti, Hedwig apparteneva alla casa, il suo ruolo era quello di crescere i figli e tenere tutto in ordine. Mentre a uno spettavano la gloria e i riconoscimenti lavorativi, non c'era niente ad attendere l'altra, così Hedwig ha trasformato la sua gabbia nel suo castello, si è eletta a regina, e ha lavorato duramente per farlo, per raggiungere quello status e sceglie di non rinunciarvi, di sicuro non per "amore".

Cos'è un matrimonio a confronto con delle belle rose?



IL SONORO

La mancanza di vista è compensata dall'udito. Per tutto il film il regista Jonathan Glazer non ci mostra cosa accade al di là del muro, ma questo non significa che non sappiamo cosa succeda dentro al campo, grazio allo straordinario utilizzo del suono che fa Glazer. Il film, quasi totalmente privo di musica, è accompagnato da un sottofondo costante di urla e grida, urla dei soldati, grida dei prigionieri, ordini in tedesco, spari, un sottofondo che i personaggi sembrano non percepire, quasi parte della normalità, così come il fumo del camino, il fuoco acceso che esce la notte e che solo i servitori ebrei che vivono nel campo sembrano vedere e sentire. Un odore dolciastro e nauseabondo di carne bruciata, ecco come l'hanno descritto gli ormai anziani tedeschi che vivevano nelle prossimità del campo, non dei feroci nazisti, ma delle persone normali che vivevano a due passi da un genocidio. Forse lo stesso odore che ha spinto la madre di Hedwig ad andarsene, a sparire nel cuore della notte, incapace di portare il peso di tutti quei morti che una volta conosceva e a cui faceva le pulizie.

Le urla ritornano anche nel finale, con la musica che accompagna i titoli di coda, che più scorrono e più ricordano le grida dei prigionieri dentro i forni, condannati a morire come bestie.



LA FAVOLA

Molto suggestive sono le scene girate in negativo, quasi un sogno di una ragazza che si intrufola nel campo e nasconde delle pere per i prigionieri, scene accompagnate dalla voce di Hoss che legge ai suoi figli la favola della buonanotte: Hansel e Gretel, che bruciano la strega nel forno mentre fuori dalla finestra si alza il fumo dei forni crematori.

E la ragazza del sogno, la ragazza che nasconde le pere e che sembra un fantasma, poi diventa realtà, nel passaggio dal negativo al colore, quando torna a casa ed è di nuovo al "sicuro". Sembra un fantasma ma forse un po' lo è, come tutti quegli ebrei costretti ad assistere allo sterminio dei propri fratelli senza poter agire davvero. Solo qualche pera, che può diventare fonte di salvezza o di morte, come per il prigioniero sorpreso con una di esse e condannato ad essere affogato nel fiume.



IL FLASHFORWARD

Ma sicuramente la scena più enigmatica è quella finale in cui vediamo Hoss scendere le scale di un edificio e fermarsi una prima volta come sul punto di vomitare, riprendersi e proseguire la sua discesa, ma deve fermarsi di nuovo sul pianerottolo con l'urto del vomito, lì si guarda intorno ed ecco che ci troviamo nel futuro, o meglio nel nostro presente, dove le donne delle pulizie del museo di Aushwitz puliscono i vetri e passano l'aspirapolvere, per poi ritornare ad Hoss su quel pianerottolo che dopo un momento di dis-equilibrio, va avanti a scendere le scale. 

Potremmo passare mesi a discutere sul significato di 


questa scena, se lui abbia avuto davvero una visione, se il flashforward sia solo per noi, se sia simbolo di una rivelazione, ciò che però resta secondo me è il significato intrinseco: in quel piccolo istante in cui Hoss stava per vomitare lui ha realizzato, ha realizzato quello che ha sempre saputo, cioè che ha contribuito e sta contribuendo allo sterminio di milioni di persone, e il finale, il momento in cui potrebbe andare verso la luce, svanisce nel vuoto, si chiude nel buio, lui continua a scendere le scale, non si ferma, perché cos'altro potrebbe fare se non andare avanti? Oramai è troppo tardi e la sua immagine muore nello schermo nero.



PERCHE'?

Jonathan Glazer sceglie di narrare la storia della Shoa da una prospettiva nuova, la prospettiva di tutti quelli che hanno vissuto la loro vita all'ombra del genocidio. Persone semplici, famiglie normali, e stimola la domanda che tutti si sono posti: queste persone sono complici dei crimini che sono stati compiuti contro l'umanità?

Glazer non dà una risposta, e forse proprio il suo astenersi dal giudizio morale è già una risposta, mostrandoci una frazione di "normalità" ci ha mostrato il potere della cecità, cosa è stato voltare la testa dall'altra parte, e quali sono stati i risultati delle non-scelte del popolo tedesco (specialmente con lo splendido montaggio nel museo).

Non fare niente ha ucciso milioni di persone.

Spostare lo sguardo sta uccidendo milioni di persone.

Non è un caso che Glazer esca con un film sullo sterminio proprio quando infuria il conflitto israelo-palestinese, esso è un monito, Jonathan Glazer ci sta dicendo che ignorare la realtà di quello che sta accadendo in nome di una cieca ideologia non è differente da quello che hanno fatto i nazisti, non è differente da quello che ogni famiglia tedesca faceva in quegli anni: è promuovere il conflitto, prolungarlo e supportarlo.

La zona d'interesse è ben più di un film sull'Olocausto, è un film sulla tragedia del non voler vedere.