Il ragno tace
18:35. Tutto tace. Non un rumore se non il ronzio della mosca che mi tiene compagnia e le urla dei muratori, fuori, lontane, soffocate dai serramenti nuovi che mi tengono al caldo quando fuori c'è freddo, al fresco quando fuori c'è caldo, al sicuro mentre il mondo fuori infuria.
18:35. Tutto tace. Non un suono, non uno squillo, non un vibrio o un impercettibile e luminoso segno dello schermo, solo il ronzio infernale delle immagini che scorrono. Gli occhi soffrono, lacrimano, ma nonostante ciò non si staccano da esse. Un fiume d'immagini mi inghiotte, un mare mi inonda, per fortuna sono stato medaglia d'oro olimpionica d'apnea: qua sotto non si respira, ma si sta comunque meglio che là fuori.
18:35. Tutto tace, pure io che nel silenzio trovo sempre la parola giusta, che ho sempre da argomentare, su tutto, con tutti, e con me stesso più di tutti. Tutto tace. Io taccio, loro no. Sento le urla e le risate, la musica, i passi, il dolore, lo sporco che si annida su di loro e dentro di loro.
18:36. E' l'ora dell'amore. E mentre me ne do in dosi razionate e consigliate dalla dottoressa mi rendo conto che questa non è casa mia. Mi trovo in un campo, corro finche ho il fiato, in pratica mi fermo subito. Mi accascio su di una panchina e nel giro di poco mi addormento. Al risveglio sono diventato parte integrante della ragnatela di un piccolo ragno giallo di campagna: non ero mai stato un architettura! Mi sono sentito importante, imponente; non ero mai stato un muro portante, né per me stesso, né per gli altri.
Il tempo si è fermato. Non posso muovermi, non posso fare questo al piccolo ragno, lui che si era impegnato tanto per la sua opera. E così, lì, fermo, paralizzato, non posso fare altro che pensare, e allora penso. Penso come sarebbe stata la mia giornata se non mi fossi fermato su quella panchina. Mi trovo in un campo, corro e finché ho fiato corro, ma non l'ho, mi fermo subito. Mi accascio su di una panchina e stremato, senza fiato, mi addormento, come sia possibile ancora non lo so. Al risveglio un piccolo ragno giallo di campagna mi ha reso parte viva della sua opera. Come mi muovo sento la ragnatela che si tira e ritorno composto al mio posto: non posso muovermi senza fargli del male. Nella noia della paralisi posso solo pensare, allora penso, e penso a che cosa ne avrei fatto della mia giornata se non mi fossi fermato su quella panchina. Mi trovo in un campo, in un campo che è più un prato che un campo. Non se ne vede l'inizio e non se ne vede la fine: la collina lo rende infinito; e allora sogno di poter correre fino all'infinito e oltre, levarmi da terra, librare nel cielo e correre tra le nuvole fino a quel bosco di abeti che veste l'elegante montagna, là, di fronte a me, dove solo i miei sogni possono arrivare. I piedi sono stanchi, i polmoni danno l'allarme da almeno trecento metri, il cuore batte all'impazzata, ma stavo sognando, nulla può turbare il sonno di chi non ha altro posto in cui essere felice. Le gambe cedono, mi accascio su di una panchina e collasso. Mi risveglio dentro una ragnatela, vedo un grosso ragno giallo con striature nere e bianche sul dorso, zampe lunghe e sottili, e un terrificante sguardo interrogativo: un chiaro ragno di campagna. Chissà cosa vede quando mi guarda?! Quanto a fondo può andare con tutti quegli occhi? A me ne bastano due per vedere il dolore. Sono fermo e lo fisso, cerco di comprenderlo, sperando che lui apra le fauci per dirmi quali sono esattamente i miei lividi, nell'anima, nel cuore. La pancia brontola e oscilla tutta la ragnatela, sento le vibrazioni che mi rimbalzano nelle ossa, nei nervi. Rimango lì, fermo immobile mentre cala un silenzio tombale e il ragno nemmeno mi guarda più. Gli chiedo di guardarmi, mi ignora, <<guardami!>>, risponde a tono basso: <<zitto, stupido!>>. Ed io zitto, pietrificato dalla sua freddezza, lo fisso, aspetto che mi parli o che mi dia il permesso di parlare. Di lì a poco una vespa volando si incastra sulla tela, quasi la rompe ma nell'incidente, accidentalmente, la colora: ora forse è anche più bella. La guardo per un attimo e poi guardo il ragno, temo sia arrabbiato: con me che gli ho urlato contro o con lei che poteva rovinargli l'opera. Guardo di nuovo la vespa, aspetto che almeno si scusi: con il ragno per aver attentato alla vita dell'arte e con me per aver interrotto il nostro discorso. Ma in un attimo il ragno le è addosso, la imbozzola e con il pungiglione la ferisce, forse mortalmente, forse no. La vespa lancia un ultimo urlo straziante, lo sento nella pancia, nelle viscere. Mi alzo di scatto e con le mani straccio la ragnatela da me: non voglio essere parte di tutto questo.