Il limite del punto

10.10.2024

Eccoci qui con il secondo articolo. Nel primo abbiamo affrontato il limite in diverse accezioni e abbiamo visto quali sono le due estreme reazioni ad esso: infrangerlo o subirlo. In questo articolo invece scendiamo lentamente dentro ad un trauma e proviamo a comprendere alcune dinamiche del suo processo cicatriziale, osservando perché alcuni corpi subiscono e altri infrangono.

Il film su cui ci appoggiamo è MEN, di Alex Garland. Un horror psicologico allegorico che ci mostra appunto l'iter di accettazione di un trauma.


L'incidente da cui origina il trauma, ricostruito pezzo per pezzo lungo tutto il film, è questo: Harper dice al marito di voler divorziare, lui non ci sta e tra le lacrime e i singhiozzi la minaccia di uccidersi. Lei è sbigottita, si urlano e piangono. Più avanti lei scrive ad un'amica che è spaventata, lui le ruba il telefono incazzato e si riaccende la lite che degenera quando lui la colpisce sul viso. Lei si rialza e gli urla contro fino a cacciarlo dalla stanza: "Vuoi minacciarmi di ucciderti? Fallo! Non me ne frega un cazzo". Esausta e ferita non fa a tempo a sedersi che guardando fuori vede il marito cadere a picco verso il pavimento mentre la fissa dritta negli occhi.

Per ritrovare un po' di calma e di serenità dopo la spiacevole e terrificante esperienza in cui si è ritrovata, Harper affitta una tenuta in campagna per due intere settimane: una casa da una ventina di stanze solo per lei e un giardino immenso circondato dalla bellezza della campagna. Un paradiso.
Un paradiso che ella stessa si è costruita nella testa, un paradiso che però ha un'oscura galleria al di là del quale si intravede altro paradiso, verde, bellissimo. Una galleria che non riesce ad attraversare perché è in quell'unico punto oscuro che vive il senso di colpa, e la sua gioviale e innocente trovata musicale lo risveglia dal suo lungo sonno.

Qualcosa inizia a muoversi dentro la terra, qualcosa che era stato seppellito nel profondo.

Ok, vediamo il primo passaggio: al trauma segue la costruzione di un involucro, di un guscio di protezione bellissimo ed esagerato che tenga lontano il senso di colpa. Le piante fanno una cosa simile: quando c'è una ferita, e i tessuti interni sensibili vengono esposti all'ingresso di batteri e virus, la pianta va in allarme e dirige tutta una serie di sostanze ormonali verso la ferita per isolarla, ogni pianta a suo modo, ed evitare così che gli agenti patogeni arrivino fino agli organi vitali. Allo stesso modo la psiche reagisce isolando il trauma, tendenzialmente lo rimuove (cioè non lo ricordi), ma né isolarlo né rimuoverlo equivale a guarirlo.

Nonostante la sua fuga, anche qui nel paradiso che si è costruita, il trauma riesce a trovarla, lo incontra in questo allegorico tunnel che potrebbe rappresentare l'uscire dal sé verso il mondo esterno, l'andare avanti, cosa che ovviamente non riesce a fare. Lui la aspettava lì, e lei ora può solo scappare, senza sapere realmente chi è il suo inseguitore, e spaventata torna al sicuro nella sua fortezza.

La casa e il paradiso in cui è immersa sono come una bolla dal quale Harper non esce. Una bolla, un limite che si è creato per un chiaro e preciso motivo, e che Harper non infrange. Non vuole? Non riesce? O non può? Grazioli a lezione, un giorno quasi per caso, in modo distratto ma con lo sguardo di chi sa quello che sta dicendo, ha formulato una frase che suonava più o meno così: ogni cosa succede esattamente nel momento in cui può succedere, prima che possa succedere ne devono succedere altre mille, magari apparentemente futili, senza il quale però quest'altra cosa non potrebbe succedere. Prima che Harper infranga il limite devono succedere ancora molte cose.

Quanti hanno letto il mio articolo su Drive my car di Hamaguchi, La muta danza delle lingue? Ora faccio un parallelo con quell'articolo.
Questa bolla, questo paradiso, è come un punto, Harper è come un punto: <<un piccolo mondo incredibile>>, e in quanto punto è ferma, fissata nella superficie di fondo, ed il suo contorno, il contorno del punto, è il suo limite. Al di là del tunnel c'è il mondo esterno, l'altro, ma per raggiungerlo serve il movimento, serve uscire dalla bolla, rompere il punto. Il movimento è la distruzione di un limite. Ma prima di potersi muovere un punto deve caricarsi di due tipi di forze: forze interne e forze esterne. Ora, qui si colloca l'unica critica che mi sento di fare a questo film che ritengo veramente un ottimo lavoro, affascinante da un punto di vista visivo e con un'idea di fondo geniale. Il ruolo dell'esterno, dell'altro è praticamente inesistente, per rendere completa la metafora manca questo tassello che viene traslato per economicità cinematografica negli uomini del paese. Queste figure hanno come un doppio ruolo, rappresentano concettualemente il senso di colpa nelle sue diverse "fasi" che ribolle dal di dentro, ma sono concretamente gli agenti esterni che stimolano Harper a lavorare sulla ferita, producendo in lei una reazione. Rappresentano perciò entrambe le forze, interne ed esterne.

Vediamo più da vicino le due forze che agitano il punto: le tensioni interne che crescono sono quelle generate dal senso di colpa, emozioni e sensazioni che originano da Harper ma sono da lei stessa seppellite, nascoste, rimosse. Per questo servono le forze esterne, che agiscono come stimolatori e figurativamente spingono fuori il punto, lo agitano: il proprietario di casa con delle piccole parole fuori luogo, il ragazzo in modo schietto e tagliente, ed il parroco in modo subdolo e brutale. Nella loro indelicatezza e inopportunità, scatenano in lei una reazione, la obbligano a fronteggiare quelle domande che lei stessa si era posta, ma che aveva voluto dimenticare. E quelle domande fanno male, fanno paura e ti ossessionano ma solo affrontandole si può guarire la ferita.

Che cosa capiamo da tutto questo sproloquio di punti e non punti? Innanzitutto che il limite interno ha un'altra possibile fonte di origine: il trauma, che è una ferita, una spaccatura, che si genera in una zona non precisamente localizzabile del corpo e per questo spesso passa inosservata. Secondo, il trauma influenza sia il limite meccanico del corpo sia il limite etico, e genera un nuovo limite interno fondato sulla paura: io quel movimento ho paura di farlo. Lo chiameremo per ora limite d'angoscia, perché è questa che il corpo produce quando anche solo ci si avvicina al limite. Terzo, alcuni limiti ti bloccano ed irrigidiscono, per questo andrebbero affrontati, ed infrangerli è assolutamente positivo, il movimento stesso è l'infrazione di un limite.