Bones and All
Maren è una giovane cannabile, dopo l'ennesimo attacco di fame il padre la abbandona, lasciandole qualche soldo, il suo certificato di nascita e una cassetta in cui le racconta come è stato crescerla a partire dal suo primo attacco di cannibalismo. Maren si mette in viaggio, un viaggio alla ricerca della madre e di sé stessa, un viaggio in cui incontrerà vari compagni, e tra questi Lee, un giovane cannibale come lei del quale si innamorerà completamente.
Il cannibalismo come metafora estrema
All'interno del film ogni personaggio si relaziona al cannibalismo in modo diverso, quello che accomuna tutti però, almeno fino al finale, è la condizione di colpa che sembra sempre accompagnare gli atti antropofagici. Guadagnino utilizza il cannibalismo come metafora per i "desideri estremi", desideri proibiti che ognuno di noi possiede nel fondo della sua anima, ma che per un condizionamento sociale solo in pochi mostrano apertamente, pochi che solitamente vengono considerati pazzi o pericolosi. Nel film il cannibalismo è dipinto quasi come un istinto naturale imprescindibile, per i cannibali è praticamente impossibile stare lunghi periodi di tempo senza "sfamarsi" e questo cibo "speciale" sembra restituire loro una vitalità nuova.
Sondiamo per un attimo le origini antropologiche del cannibalismo: nella concezione comune il cannibalismo è l'atto supremo di barbarie, tipico dei popoli sottosviluppati. Ci immaginiamo indigeni armati di lance che mossi da una ferocia indicibile catturano il nemico e lo divorano, magari arrostendolo al fuoco. Ora, dire che la concezione comune è errata sarebbe limitante, da sempre nella storia sono esistiti esempi di popoli che hanno praticato l'antropofagia, ma l'interesse per questo fenomeno ha cominciato a diffondersi solo nel Medioevo, con le grandi esplorazioni e la grande divisione tra il popolo Occidentale, bianco e superiore, e il resto del mondo non-europeo, selvaggio e sottosviluppato.
Per tentare di comprendere tale fenomeno è importante inserirlo, e collocarlo, all'interno del vasto universo simbolico che comprende la concezione della vita, della morte e la continuità di un gruppo sociale. Prescindendo dai casi di cannibalismo per necessità, quando a causa di carestie, guerre o situazioni speciali, la carne umana di fatto costituisce l'unico cibo disponibile, nelle società che lo praticano, il cannibalismo si configura come un atto rituale che presuppone l'esistenza di regole condivise dal gruppo.
Nell'analizzare il fenomeno una prima importante distinzione è quella tra cannibalismo rituale, che consiste nel mangiare parti del corpo umano a scopi magici o rituali, e cannibalismo di penuria, che ha un significato puramente alimentare, e diventa un mezzo di sopravvivenza in situazioni di carestia o grave mancanza di cibo. A questo particolare tipo di cannibalismo si riferisce ad esempio Polibio nelle Storie quando scrive:
Nel periodo in cui Annibale progettava di preparare con le truppe la marcia dall'Iberia in Italia, e si preannunciavano enormi difficoltà per i viveri e la disponibilità di rifornimenti per le truppe […] uno degli amici […] espresse il parere secondo cui gli si presentava una sola via che consentisse di arrivare in Italia. Quando Annibale lo invitò a parlare, disse che bisognava addestrare e abituare le truppe a mangiare carne umana (Polibio, IX; 24).
Ed è interessante quanto scritto più recentemente da Levi Strauss in Tristi Tropici:
Nessuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva […] Prendiamo il caso dell'antropofagia che, di tutti gli usi selvaggi è senza dubbio quello che ci ispira più orrore e disgusto. Bisognerà prima di tutto dissociarne le forme propriamente alimentari, cioè quelle per cui l'appetito della carne umana si spiega con la mancanza di altro nutrimento animale, come in alcune isole polinesiane. Da quella fame violenta nessuna società è moralmente protetta; la fame può spingere gli uomini a mangiare qualsiasi cosa e ne è prova l'esempio recente dei campi di sterminio (Lévi Strauss, 2008: 331-332).
Un'ulteriore importante distinzione è quella tra endocannibalismo ed esocannibalismo. L'endocannibalismo si presenta come una fase delle cerimonie funebri in cui viene consumata parte del corpo del defunto affinché il suo spirito possa continuare a sopravvivere. Tale forma di cannibalismo solitamente non prevede l'uccisione della vittima ma si focalizza su persone già morte. La loro carne e le loro ossa rappresentano simbolicamente la rigenerazione e la trasmissione dei valori sociali e della fertilità da una generazione alla successiva. In molti popoli era previsto il consumo delle ceneri dei defunti, della loro carne carbonizzata o delle ossa triturate che, mescolate con bevande, venivano ingerite, prolungando la vita dell'estinto. Esempio di tale pratica sono i Yanoama dell'Amazzonia e della Nuova Guinea che cremano i resti dei loro defunti ingerendone le ceneri durante particolari cerimonie rituali.
Viceversa, l'esocannibalismo vede i nemici catturati o uccisi in guerra, schiavi e stranieri, trasformarsi in cibo. La vittima è sempre una persona esterna al gruppo di appartenenza. In un contesto ritualizzato, quale quello bellico, in cui la violenza viene rivolta all'esterno del gruppo di appartenenza, cibarsi del nemico significa assorbirne il valore, le qualità e l'energia, impedendo allo spirito nemico di vendicarsi o nuocere al gruppo.
Descrivendo i vizi e i difetti della società francese ed europea del suo tempo negli Essais, Montaigne scrive:
Mi sembra [che in quei popoli] non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio […] se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo (Montaigne, 1966: 272).
L'appellativo barbarie nasce infatti dai nostri limiti conoscitivi, dalla nostra incapacità di comprendere ciò che a noi è estraneo, dalla trasformazione delle nostre idee, opinioni e costumi in certezze e verità dogmatiche e assolute. «Possiamo ben definirli barbari» concede Montaigne, ma solo «se li giudichiamo secondo le regole della ragione», non se li confrontiamo «con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie» (Montaigne, 1966: 278).
Comincia ad esser chiaro che il cannibalismo non può essere considerato semplicemente un gesto di inaudita ferocia, compiuto da barbare e folli popolazioni, ma deve essere analizzato e osservato con occhio attento per riuscire a cogliere le motivazioni che stanno alla sua base, in un continuo intrecciarsi di diversi livelli di lettura e differenti modalità di analisi.
Apparirà chiaro a questo punto che anche nel film di Guadagnino il cannibalismo assume delle forme rituali. Sully, per esempio, non si ciba di altri cannibali e soprattutto non condivide il pasto con nessuno, essendo l'atto stesso di un livello di intimità estrema, ma concede questo privilegio a Maren, stringendo, ad insaputa di lei, un legame sentimentale. Sempre Sully porta sempre con sé una treccia fatta con i capelli delle sue vittime, forse un gesto per sedare il senso di colpa o per onorare le loro morti, o forse solo per ricordarsi di tutti loro, come dei trofei.
L'altro incontro che segna un punto di svolta per Maren è quello con la madre. Maren trova prima sua nonna che le rivela che sua madre si è fatta rinchiudere anni prima in un istituto psichiatrico, allora Maren si reca da lei e alla sua vista rimane sbigottita: la madre non ha le braccia. Se le è mangiate per impedire a se stessa di mangiare altre persone, la madre di Maren è l'epitome della colpa, per lei il cannibalismo, di cui è vittima (?) tanto quanto Maren, è un abominio, è sbagliato, e come dice nella lettera che aveva lasciato alla figlia anni prima "le persone come loro non meritano amore", così mentre Maren legge ad alta voce la lettera, la madre la aggredisce, vuole ucciderla, per risparmiarle la sofferenza di vivere come ha vissuto lei, ma non è questa la sua strada.
Maren fugge, da lei, da lì, ha bisogno di ritrovare la strada e capire cosa vuole essere, chi vuole essere, dopodiché tornerà da Lee e il loro amore sarà qualcosa di nuovo, qualcosa di più forte. Lee si confessa con lei, e finalmente riescono a baciarsi. Nella prima parte del film il loro amore era impacciato, quasi come se non gli appartenesse davvero, ma nella seconda parte, in cui si baciano molto di meno, l'amore è più vivo e presente, e vive nella loro normalità che è dolcissima, normalità che viene interrotta dal ritorno di Sully, che vuole Maren e che causerà uno scontro a tre che terminerà con la morte di Sully e la morte di Lee, che steso a terra sanguinante chiederà a Maren l'atto estremo di amore: mangiarlo fino alle ossa.
Perché definisco questo atto estremo di cannibalismo, cioè mangiare completamente una persona, comprese le ossa, l'atto estremo d'amore? Perché per tutto il film il cannibalismo di Maren e Lee è stato una metafora per il loro amore e cibarsi dell'altro significherebbe impedire che l'altro muoia per davvero, lasciare che viva e sopravviva dentro di sé, rimanere insieme per sempre, come fanno appunto alcune popolazioni dell'America Latina con i loro defunti.
La
morte stringe un legame con la vita, il defunto non viene abbandonato e
lasciato a marcire nella terra, ma diventa parte dei vivi, parte del nostro
corpo e della nostra anima, questo è il vero legame indissolubile che è il
cerchio della vita, ognuno ritorna da dove è venuto, e per me non esiste niente
di più umano o di più romantico.
di Rebecca Carminati