Asteroid City
Il regista statunitense W. Anderson, noto per la sua estetica eccentrica, è da poco uscito con Asteroid City (28 settembre 2023), un film che riflette sull'iter creativo e sull'opera d'arte. Un regista e l'intera troupe lavorano sul set all'opera teatrale Asteroid City: il racconto di come una serie di persone entrano in contatto con un entità aliena.
Il montaggio alternato, che ci mostra sia l'opera teatrale che il set nel quale viene inscenata, ci porta ad essere spettatori di entrambi i prodotti artistici e a godere di una doppia visione al prezzo di una, a patto che ci si ponga con sguardo critico su di esse. Gli attori entrano apposta in scena nei momenti sbagliati rompendo la quarta parete in modo così naturale da portarci inevitabilmente ad interrogarci sull'essenza del cinema: è mimesi della realtà o esaltazione della finzione?
Mi sembra questo film ad ora il suo prodotto più maturo, banale dirlo essendo il suo ultimo lungometraggio. Come al solito un uso eccezionale dei carrelli. Spostamenti sia di camera che della sceneggiatura che rispecchiano lo stampo geometrico e preciso dell'estetica a cui accennavo prima. Il tempo spacca il secondo, il film è scorrevole e molto piacevole, i personaggi sono buffi e ben scritti: alcuni dominano lo schermo mentre altri lo sfiorano appena. Un cast d'eccezione e una produzione di alto livello. Vedendo l'uscita dei corti, legata a quella del film, targata Netflix, mi sembra Wes abbia trovato la dimensione su cui vuole lavorare, ha il suo immaginario ben chiaro in mente, il budget e, ovviamente, le capacità per tradurcelo cinematograficamente. Ottimo lavoro!
VALUTAZIONE: ★★★★★★★★★★
Come ho già detto ho un debole per le commedie, e questa è una commedia di alto livello, un film di qualità e un opera d'arte raffinata. Consigliatissimo.
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Meta
"Il programma di stasera ci porta dietro le quinte per la creazione, dall'inizio alla fine, di un nuovo spettacolo allestito sul palco americano. Asteroid city non esiste, è un drama immaginario creato appositamente per questa trasmissione, i personaggi sono di fantasia, il testo ipotetico, gli eventi un falso apocrifo, ma assieme offrono un racconto autentico dei meccanismi di una moderna produzione teatrale". Ecco qui la risposta alla domanda posta più sopra: "Asteroid City non esiste, è un drama immaginario", ma offre "un racconto autentico dei meccanismi di una moderna produzione teatrale", nella sua falsità è vero, perfettamente costruito per rendere al meglio la realtà. Teatro!
"La nostra storia inizia ovviamente con un nastro a inchiostro, Conrad Earp, drammaturgo, originario dell'Upper Wyoming, celebre per i suoi affreschi romantici e poetici della vita ad ovest delle montagne rocciose. C'è poco da divertirsi però nel guardare un uomo che batte a macchina. Saltiamo allora i solitari, angosciosi, mesi di composizione, correzione, limatura, revisione, riscrittura, tagli, rabberci e bevute solitarie, e raggiungiamo la compagnia mentre sale sul palco per la prima prova di lettura. Luogo: il Tarkinghton Theatre, 345 South Northwest Avenue". Con acutezza Wes, tramite la voce del presentatore (Bryan Cranston), sottolinea un fattore molto importante: "c'è poco da divertirsi però nel guardare un uomo che batte a macchina", e così soddisfa il pubblico ma rende comunque onore al grande e difficile lavoro dello scrittore, saltando "i solitari, angoscianti, mesi di composizione, correzione, limatura, revisione, riscrittura, tagli, rabberci e bevute solitarie" portando noi spettatori direttamente alla prova di lettura:
"Si leva il sipario su una fermata d'autobus deserta a metà strada tra Parched Gulch e Arid Plains. La scenografia è composta da: una tavola calda con 12 sgabelli, una sola pompa di benzina e un motel da 10 bungalow con parcheggio..." la descrizione minuziosa procede fino ad esaurire le parole e così anche lo spettacolo può cominciare. Il film si colora, titoli d'apertura.
Il film si articola su tre livelli narrativi: primo, il prodotto cinematografico di cui siamo fruitori che ci mostra: la produzione teatrale, dalla scrittura fino al lavoro sul set, che è il secondo livello: un metalivello. E l'ultimo livello, o seconda metanarrazione, che è lo spettacolo "Asteroid City". Questi tre livelli di metanarrazione gli consentono di rompere la "quarta parete" senza che un personaggio esca dallo schermo per interagire con noi direttamente, ma lateralmente, con accidentali intrusioni o nervose fughe di scena. Tutto è falso, la perfezione geometrica è costruita, forzata, recitata: tutto è teatro.
"Questa sera abbiamo in serbo una vera chicca, non so quanti di voi abbiano mai osservato un'ellissi astronomica: quello che vedrete è un semplice punto-punto-punto. Tre puntini di luce nel vostro rifrattore, il che non vi sembrerà molto eccitante all'inizio, finché non rifletterete su come hanno fatto quei puntini a viaggiare mille miliardi di chilometri nello spazio fin dentro la vostra scatola di cartone", ecco qui concretamente quello che abbiamo più volte ripetuto: il meta implica uno spostamento dal contenuto al suo significato, non sono i tre punti la cosa importante ma come sono apparsi magicamente nel rifrattore.
L'intero film lavora sulla costruzione di processi artistici, sul prodotto artistico e sull'iter creativo (oggetto di "studio" già in the French Dispatch). Il nostro occhio viene coercitivamente spostato dall'opera d'arte al come è fatta? Perché è fatta a quella maniera? Augie è un fotoreporter di guerra, fotografo nel tempo libero; Midge Campbell è un'attrice, una brava commediante; Schubert è un grande regista e Conrad Earp è un drammaturgo ineguagliabile. L'approccio artistico sul quale insiste deriva da quella che si è detta pop art di cui Warhol è considerato il massimo esponente; che rifletteva, e riflette, sulla produzione in serie, il consumismo, la cultura di massa e quindi l'america, e oggi l'intero occidente, in poche parole. In concreto dal film citiamo le macchinette per bibite che arrivano a venderti persino un appezzamento di terreno per soli dieci dollari; il soldato nativo, paradossale e umoristico; l'alieno che si mette in posa per la foto; la signorina "Campbell" come la zuppa di Warhol: simbolo, anzi icona della cultura massificata vista con gli occhi dell'arte.
Warhol, Benjamin e Wes Anderson
Benjamin nel saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica teorizza quella che altri hanno definito una "crisi dell'arte" ma che in realtà altro non era se non un cambio di paradigma. Benjamin si accorge che la nascita di quelle che all'epoca erano le nuove arti, ossia fotografia e cinema, comporta un'ottimizzazione della riproducibilità tecnica tale da consentire una riproduzione e moltiplicazione infinita di qualsiasi opera d'arte, il che comporta la perdita dell'unicità che per Benjamin risiedeva in un'intangibile patina detta aura. La perdita dell'aura e l'infinita moltiplicabilità, tra le tante cose, comportano l'inevitabile ingresso dell'arte nell'industria, nel mercato.
Warhol intuisce che nella sua epoca questo carattere si è fatto dominante e tramite la sua pratica artistica irrisoria e provocatrice lavora su questi concetti mascherandoli in piena vista, secondo quel concetto di "eccesso di evidenza" per cui una cosa la cerchi ovunque tranne nei posti in cui sarebbe più semplice trovarla. E così Warhol lavora in modo quasi comico e quindi critico, sulle dinamiche del consumismo, dello star sistem ecc... ecc... ecc... Dando un tono giocoso tramite i colori fortemente accesi e contrastanti e riproducendo in serie la stessa immagine evidenziandone così la distanza: conferendogli un tono plasticoso e inerte. Quello che fa Wes Anderson nei suoi film, e in questo particolarmente, è molto simile al lavoro di Warhol, tanto che lo definirei una citazione: allontana lo spettatore saturando i colori e disegnando un mondo di plastica, una sceneggiatura forzatamente finta, piatta. Dando un tono di finzione lo spettatore è buttato fuori dal film, non immerso; distaccato, di quel distacco che ti pone in atteggiamento critico.
Ora facciamo un passo indietro, si ha come la sensazione, leggendo il saggio di Cacciari posto in prefazione a L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica che la scomparsa dell'aura, che comporta questa fantomatica "crisi dell'arte", porti all'estinzione del carattere vivente dell'arte: e non c'è nulla di più lontano dalla realtà secondo me. Là dove c'è l'arte c'è la vita, l'opera d'arte perciò non è altro che un mondo, che origina da noi, ma che non è del tutto opera nostra e che di certo non è nostro.
Prendendo ad esempio un'opera di Warhol che dovremmo più o meno conoscere tutti, Shot Marilyns, una serie di dipinti serigrafici di Marilyn Monroe; notiamo che i caratteri evidenti sono la riproducibilità e l'alterazione cromatica, e l'effetto è quello di guardare in ogni quadro un'altra Marilyn, mai la Marilyn Monroe in carne ed ossa, ma sempre un'altra Marilyn, in tutto eguale e in tutto diversa.
Tutta la pratica artistica di Warhol parte dalla fotografia, nello specifico dalla polaroid. Tutti questi dipinti in serie sono sviluppati dalle fotografie che Warhol faceva ai più celebri personaggi del mondo. Saltando lunghi ed interessantissimi discorsi sulla fotografia, arriviamo a dire che la fotografia ha quella capacità di riprodurre il reale che prima solo l'acqua e lo specchio avevano. Lo specchio in quanto superficie riflettente era l'unico modo concreto per osservare la propria immagine, ma ad una più attenta osservazione quella nostra immagine che fissiamo allo specchio, inizia a sembrare non più tanto famigliare, anzi prende a tutto diritto la definizione di Unheimlich, perturbante. Tutto d'un tratto lo specchio ci mostra un mondo tangente al nostro in tutto identico ma del tutto diverso. Un doppio alterato, capovolto, speculare, che è come il nostro ma che non è il nostro.
Ora, il cinema e la fotografia sono delle arti specchio, che non hanno il classico carattere generativo ma un carattere sdoppiante, speculante della realtà. Ma anche in esse si crea la vita. E quindi il film altro non fa che generare un mondo speculare al nostro, in tutto diverso e in tutto eguale. Il mondo che Asteroid City ritrae è un mondo alla Warhol, falso, caricato, colorato, che è specchio del nostro mondo, se non visivamente, concettualmente, allegoricamente. Quello che separa Anderson da Warhol è il passo generazionale, quella espressa da Warhol e teorizzata da Benjamin è una verità che ora è diventata ubiqua, e quando una cosa è ovunque si elide, viene data per scontata. Anderson la ripone al centro dell'attenzione, e ci lavora secondo una nuova necessità espressiva, quella del meta. La realtà plasticosa, falsa e costruita del mondo Andersoniano, che è specchio del nostro mondo "reale", è piatta, e in quanto tale è modellabile, scomponibile, e diviene per il regista un artistico gioco escatologico. Non più solo il montaggio ma l'intero film diviene una realtà scomponibile e ricomponibile.
di Ruben Carminati